“Egli imparò a volare, e non si rammaricava per il prezzo che aveva dovuto pagare. Scoprì che erano la noia e la paura e la rabbia a rendere così breve la vita di un gabbiano.” Il gabbiano Jonathan Livingston – R. Bach
Categoria: valentina rodolfi
SI RIPARTE!!
Da Lunedi 27 Agosto si ricomincia!
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349 8431980
Valentina.rodolfi@hotmail.com
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Festival della Complessità Maggio – Giugno 2018
Tra parole e sentimento.
Il difficile equilibrio nella relazione analitica.
Poliambulatorio IAEM
Da oggi è attiva la collaborazione con il Poliambulatorio IAEM
Per info e contatti: Dott.ssa Valentina Rodolfi – Poliambulatorio IAEM
Una rosa sul banco
Una rosa sul banco
UNA ROSA SUL BANCO
Il sostegno al lutto per eventi traumatici e suicidio nella rete con la scuola
Seminario
Sabato 17 febbraio 2018 Distretto del Cinema di Parma Via Mafalda di Savoia, 17a Parma
Partecipazione gratuita con richiesta di prenotazione. Riferimento per le iscrizioni: sgasparelli@ausl.pr.it
Studio di psicologia e psicoterapia Righi, Rodolfi, Castelli, via F. Maestri 4/b Parma
Speriamo che con lei si apra…
- Con noi non parla. Speriamo lo faccia con lei!
Quando i genitori si rivolgono a un terapeuta per un figlio adolescente non è raro che una delle loro aspettative sia proprio questa: “Con noi non parla, speriamo che con lei riesca ad aprirsi!”. Non è una questione semplice da circoscrivere, e ciò che di seguito si propone altro non è che un tentativo…
Di certo è un’aspettativa ragionevole! D’altra parte quando si decide di rivolgersi a uno specialista per il proprio figlio è probabile che ci sia già una certa percezione che il problema riguardi anche degli aspetti comunicativi/relazionali tra genitori e ragazzo.
E’ abbastanza comune che al primo colloquio i genitori portino tutta una serie di difficoltà legate alla comprensione del disagio del figlio. Ci si rende conto che c’è qualcosa che non va, una sofferenza più o meno esplicita del ragazzo che spesso si manifesta con agiti di varia natura, ma a cui è difficile attribuire un senso. Non di rado l’intera famiglia si trova alle prese con un doloroso rompicapo; da una parte i genitori: “sta male ma non riusciamo a capire cosa abbia, con noi non parla!”, dall’altro i figli: “i miei genitori non mi ascoltano, non mi capiscono, non possono capire”.
Queste questioni non rappresentano una particolare novità: da parecchio sappiamo (ed è di dominio comune) che gli adolescenti, per tutta una serie di ragioni fisiologiche ma anche psicologiche e sociali, si trovano a dover fare i conti con la separazione dalle loro figure di riferimento primarie. Solo passando attraverso questo processo di “allontanamento” potranno iniziare a rimodellare la propria identità in vista dell’ingresso nel mondo degli adulti.
Gli adolescenti hanno i loro buoni motivi per sottrarre aspetti della propria vita alla supervisione dei genitori, i quali al contrario, si dimostrano spesso nostalgici di quel genere di condivisione totalizzante che aveva caratterizzato l’infanzia.
Siccome non è facile fare i genitori così come non lo è fare i figli, trovare un compromesso risulta abbastanza di frequente una sfida a chi tira di più la corda, piuttosto che una cocostruzione di nuovi equilibri funzionali alla comprensione e all’accettazione dell’altro per com’è e per ciò che sta divenendo.
Questo non significa che il conflitto (manifesto, agito, pensato, attuato ecc ecc) non possa fare parte di una buona relazione, anzi! il conflitto è parte costitutiva e imprescindibile della buona vita sociale, anche familiare, benchè purtroppo siamo spesso indotti a credere che il conflitto sia da rifuggire. Ma il conflitto, il buon conflitto, deve poter essere utilizzato come uno strumento di comprensione di sè e dell’altro e non confinato a una dimensione in cui l’unico scopo è mantenere se stesso come sola possibilità di stare con l’altro.
Ma come è possibile uscire dall’impasse se genitori e figli sembrano parlare lingue diverse, siano esse le urla, il silenzio, la menzogna, il raggiro, il ricatto, la fuga…?
Alla luce di ciò è chiaro come una delle aspettative più complesse con cui ci si rivolge al terapeuta è che egli possa fungere da una sorta di traduttore bidirezionale che aiuti gli uni a comprendere gli altri. Ed è proprio da questo che nasce il primo fraintendimento esplicitato più o meno così “a noi non dice cosa lo fa stare male, se lei riesce a farlo parlare allora potremo capire cos’ha”.
Non è mai semplice frustrare le aspettative di chi ci chiede aiuto, a maggior ragione se è una persona che soffre, come può essere un genitore davanti al dolore senza nome del figlio. Ma la verità è che non ho il potere di far parlare qualcuno se non vuole. Certo, questo forse renderebbe più “semplice” il lavoro, ma sarebbe davvero la cosa migliore? Sarebbe onestamente utile che un ragazzo che fuori dallo studio non proferisse una singola parola con gli adulti (e talvolta con i coetanei) fosse con me un libro aperto? E ancora: quante volte si fanno delle cose senza conoscerne davvero il motivo? come spiegare a qualcuno come e perchè si sta in un certo modo se non è chiaro nemmeno a noi stessi?
Se fosse possibile capire l’altro, la sua sofferenza, la sua necessità di essere compreso, il suo modo di stare al mondo e di agire su di esso, semplicemente chiedendoglielo (ammesso di ottenere una risposta), significherebbe accettare un essere umano perfettamente onnisciente rispetto a se stesso e quindi all’altro…e allora forse non esisterebbe nemmeno il dolore.
Le riflessioni potrebbero essere tante e tante altre se ne potrebbero fare per ogni specifico caso. Due però mi sembrano fondamentali:
- Chi entra nello studio di un analista deve poter esercitare un diritto fondamentale e importantissimo: porsi per ciò che egli è. Questo sta a significare che il terapeuta non è lì per essere compiaciuto, per giudicare o per agire in modo coercitivo e indiscriminato sull’altro, non è lì per pontificare su come si dovrebbe essere e non si è, per proporre soluzioni o consolazioni. (Non è questo il tipo di lavoro che mi sento di poter o volere offrire). Queste sono tutte cose di cui è bene informare chi si rivolge a un terapeuta, sia esso l’inviante (come nel caso dei genitori) o il ragazzo.
- Quanto detto implica la legittima possibilità da parte del ragazzo di scegliere di non dire di sè; al ragazzo non viene chiesto di “fare delle delle cose” ma di “di essere quello che è”. Al terapeuta resta il compito di accogliere tutto questo e accettare che la relazione possa costituirsi a partire da altro, cioè la situazione stessa dello stare insieme.
In questo senso il lavoro terapeutico deve essere inteso come una comprensione dell’altro a un livello profondo, che può prescindere addirittura da ciò che si dice e ciò che si esplicita.
Che il ragazzo “si apra” o “non si apra”, non fa una sostanziale differenza ai fini terapeutici, perchè quello che davvero conta è che egli si renda disponibile a stare in relazione con l’altro. Qualsiasi forma la relazione assuma.