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E’ un’emergenza…anzi no!

Chi di mestiere fa lo psicoterapeuta sa bene quanto i periodi più caldi durante i quali le telefonate e le richieste di appuntamento si intensificano sensibilmente siano cadenzati da date abbastanza precise. L’estate, il Natale e in generale tutte le festività, ma anche i weekend, rappresentano momenti “particolari” nella vita di ognuno di noi. Non è raro che qualcuno chiami o mandi un messaggio per prendere contatti di sabato o domenica, ben sapendo che generalmente i professionisti lavorano durante i giorni feriali.

Quelli citati sono momenti durante i quali, almeno per l’idea che mi sono fatta negli anni, la probabilità che una serie di riflessioni più o meno consapevoli su se stessi venga sollecitata aumenta.

Essi rappresentano una discontinuità nella normale routine quotidiana. Offrono una pausa: qualche giorno di ferie lavorative, la fine di una sessione di esami, un weekend di pioggia…

E talvolta è proprio durante queste “parentesi” di vita che alcuni dei pensieri che fin lì eravamo riusciti ad eludere tanto presi dal “fare altro” riemergono con (pre)potenza facendosi più pressanti ed inevitabili: “perchè sono stata/o ancora lasciata/o dalla persona che amavo?”, “perchè non ho amici con cui andare in vacanza?”, “perchè tutti sembrano avere successo e portare avanti una vita piena di soddisfazioni e io mi sento arenato in un’esistenza senza obiettivi e senso?”, “perchè il tanto, il troppo, il tutto che ho è così simile al niente?”, “perchè mi sento così tanto diverso da tutti quelli che mi circondano?”, “cosa c’è in me che non va?”.

Non è raro che le persone decidano di rivolgersi a un terapeuta proprio mentre sono presi dal farsi più o meno consapevolmente queste dolorose domande. Se fino a poco prima, il venerdì, il 23 dicembre, il giorno prima delle ferie, un certo disagio benchè presente poteva essere tollerato, ignorato e messo da parte, arriva un momento in cui tutte le strategie messe in atto per non fare i conti con esso si rivelano inefficaci, e non di rado questo avviene proprio quando si ha la possibilità di prendersi una pausa.

Chiaramente quanto detto non corrisponde a ciò che avviene nella totalità dei casi, ma ne rappresenta senza dubbio una fetta significativa.

Un’altra considerazione: è evidente che quando qualcuno si attiva per chiedere aiuto durante una “fase acuta” di sofferenza la domanda stessa assuma carattere di urgenza, cioè “sto male adesso, ho bisogno adesso, aiutami adesso!”.

Ci sono altre questioni però che spingono le persone a rivolgersi a uno psicoterapeuta con tanta urgenza ed emergenza, e che in parte sono sovrapponibili e in parte complementari a quanto detto fino a qui. Quando la vita ci pone di fronte a eventi che facciamo fatica ad elaborare siano essi drammatici (come una separazione o un lutto) o ricercati (come la nascita di un figlio o un nuovo lavoro di maggior responsabilità), può capitare che riuscire a mettere a fuoco quanto tutto ciò possa risultare destabilizzante non sia così scontato. Forse ci accorgiamo che qualcosa non va, ci turba, ma è un brusio di sottofondo che riusciamo bene o male a tenere a bada con le più svariate strategie (che in altra sede, talvolta, potremo chiamare “sintomi”, ma è un altro discorso…), finchè non ci fermiamo (o succede qualcosa che ci costringe a farlo) e allora il brusio diventa un rumore assordante che deve essere spento.

Gli psicoterapeuti sanno bene quanto siano insidiose le richieste che presentano queste caratteristiche, quanto ambivalente sia la natura della domanda e quanto siano complesse le aspettative di chi chiede aiuto di impulso, nel tentativo di sanare un’angoscia tanto travolgente quanto, illusoriamente, dimenticabile. Illusoriamente, già, perchè spesso è questo a cui vogliamo credere ed è così che ci convinciamo che forse stiamo meglio, che era solo un momento, che le cose non vanno poi così male OGGI, e forzatamente cerchiamo di ridimensionare il dolore di IERI

Succede così che gli appuntamenti vengano presi sull’onda di un’urgenza implacabile e poi vengano disdetti o persino disertati senza preavviso. Una volta una collega mi raccontò di essere stata contattata da un uomo che da lì a poco si sarebbe dovuto trasferire in Canada per motivi lavorativi e che aveva assoluta ed estrema necessità di chiarire alcune cose prima di trasferirsi…ovviamente non andò all’appuntamento.

A conclusione di questa lunga premessa è importante chiarire una cosa: quando si parla di esseri umani è importante tenere a mente sempre una certa complessità. Se è vero che la vita ci mette davanti a numerosi ostacoli che possono profondamente perturbare il nostro equilibrio, è anche vero che ciò che mettiamo in atto per far fronte a questi eventi dipende da come siamo fatti, da come la nostra personalità e identità si è costituita nel corso della nostra esistenza e dall’elaborazione che abbiamo fatto di ogni singola esperienza. In sintesi è probabile che per reagire a ciò che ci succede, indipendentemente dalla sfida che ci troviamo ad affrontare, facciamo ricorso a determinate risorse interne, perchè così abbiamo sempre fatto e perchè così abbiamo imparato a fare. Il miglior compromesso tra noi e il mondo.

E’ possibile che per buona parte della nostra vita queste strategie possano funzionare. Può succedere però che a un certo punto esse non risultino più funzionali, o almeno non abbastanza.

Per esempio (semplificando all’osso), se siamo abituati ad evitare le situazioni conflittuali convinti che così la nostra vita sarà più semplice, è possibile che riusciremo a mettere in atto questa modalità difensiva ogni volta che penseremo sia necessario, ed è anche probabile che essa funzionerà per i nostri fini. Forse essa avrà dei costi, ma probabilmente li avvertiremo come accettabili rispetto ai vantaggi. Saremo quelli con un buon carattere, pacifici, forse gli altri si faranno un’idea di noi coerente con ciò che pensiamo di noi stessi e questo ci gratificherà.

Ma cosa succederebbe se all’improvviso, sul posto di lavoro, il nostro capo che ormai conosciamo da anni e col quale abbiamo instaurato una relazione sufficientemente serena e conciliante, venisse sostituito da un responsabile aggressivo e tiranno?

Probabilmente dopo aver valutato la situazione come potenzialmente minacciosa e perturbante faremmo ricorso alla strategia con cui abbiamo più confidenza cioè l’evitamento. Ovviamente la realtà ci mette costantemente di fronte a dei limiti oggettivi ed evitare il confronto con il proprio capo può essere una posizione sostenibile solo se non siamo preoccupati da un possibile licenziamento. Quindi con molta probabilità non tenderemo tanto ad evitare la persona quanto il conflitto in sè mantenendo una certa passività nella relazione con l’intento di disinnescare la minaccia.

Ma quali costi in termini psicologici può comportare una dinamica di questo tipo protratta nel tempo? Non mi soffermerò su questo perchè è evidente. Ognuno di noi è in grado di immedesimarsi in questa situazione e probabilmente molti ne avranno fatto esperienza diretta. Quello che è importante sottolineare è come si agisca sempre per ciò che si è e per come abbiamo imparato ad essere.

Succede così che è proprio durante una domenica pomeriggio mentre attendiamo irrequieti che il weekend finisca pensando alla lunga settimana di umiliazioni, straordinari non pagati, pretese irragionevoli ecc ecc che ci si prospetta davanti, che avvertiamo l’angoscia come totalizzante e paralizzante e decidiamo finalmente che ci serve aiuto.

Durante la settimana siamo impegnati a sopravvivere, tutta la nostra energia si concentra su quell’obiettivo. Ma è quando ci si ferma che l’urgenza si esplicita in tutta la sua chiarezza.

Riprendendo l’esempio appena fatto questa persona potrebbe rivolgersi al terapeuta sull’onda di un impulso del tipo “non riesco più a sostenere l’ansia e l’angoscia che mi sta causando il mio capo, sono arrivato al limite e rischio di esplodere”. L’urgenza è questa ed è evidente. E’ anche probabile che la stessa persona riferisca un quadro di questo genere “sono sempre stato bene ma da quando è arrivato il nuovo capo la mia vita è un inferno, non riesco più a dormire la notte, sono sempre in ansia e sono costantemente preoccupato di fare qualcosa che lo possa fare infuriare, la causa delle mie sofferenze è lui”.

Dunque, senza nulla togliere al dato oggettivo siccome è in effetti molto probabile che il capo abbia davvero un brutto carattere, ciò che è davvero necessario è comprendere come il soggetto viva questa esperienza e quali risorse metta in campo.

Ci sono quindi due aspetti: il primo è il presentarsi di una situazione nuova ed effettivamente perturbante, il secondo è ciò che noi facciamo per tentare di farvi fronte e questo, come si è detto, dipende da come siamo.

Se tutti noi abbiamo un nostro caratteristico funzionamento secondo il quale agiamo nel mondo e sul mondo, in generale essere in grado di rispondere in modo sufficientemente flessibile e adattivo alle difficoltà della vita può metterci in un certo senso al riparo da forme di sofferenza paralizzanti. Gravi difficoltà nascono, al contrario, dall’irrigidimento delle risposte che tentiamo di riproporre anche quando, davanti ad ogni evidenza, non risultano efficaci perchè così abbiamo sempre fatto senza riuscire a prendere in considerazione delle alternative.

In questo senso l’emergenza in corso è solo la punta dell’iceberg dato che è molto probabile che chi tende a mettere in atto strategie molto rigide di fronte agli eventi della vita lamenti una certa ricorsività nelle risposte che l’ambiente gli fornisce.

Il lavoratore perseguitato dal capo tiranno potrebbe nel corso della terapia riferire di essersi sempre sentito un po’ preso di mira o riportare la netta sensazione che tutti si siano sempre un po’ approfittati del suo buon carattere, di non essere mai riuscito a far carriera per la poca capacità di imporsi, di essersi sentito impotente davanti a certe situazioni…e che tutto ciò nel corso della vita sia stata fonte di sofferenza e frustrazione.

Ne consegue che il vero problema (benchè non mi piaccia parlare di “problema”) non stia tanto nelle modalità vessatorie del nuovo capo, che pur rappresentano una difficoltà bene o male oggettiva, quanto nel procede in modo automatico ad applicare in modo difensivo la strategia che meglio conosciamo e che sin qui aveva dato risultati sufficientemente buoni seppure a un certo prezzo.

Non è raro dopo un po’ di tempo (e tanta fatica) accorgersi con stupore che ciò che ci fa soffrire tanto non è all’esterno, ma sta proprio nel nostro modo di rispondere a ciò che ci succede. E’ un percorso complesso e difficile ma che in molti casi conduce a una grande scoperta, cioè che sia possibile fare qualcosa per se stessi.

Certo, molte volte la bufera passa da sola, o ci si racconta che sia passata, e allora all’appuntamento con il terapeuta non si va, altre volte la domenica si trasforma in lunedì e ci si ributta a testa bassa nella propria routine

Per concludere si può dire che la psicoanalisi non agisca sull’urgenza in senso stretto in quanto si configura come processo di comprensione di sè che necessita di un fattore importante cioè il tempo. Non è ovviamente l’unico modo di approcciarsi alla questione, ne esistono altri e questa è solo una possibilità tra le varie che però ha la peculiarità di inquadrare il momento attuale di crisi all’interno di un sistema più complesso che viene man mano esplicitandosi attraverso delle riflessioni. “Perchè a te?”, “perchè ora?”, “perchè così e in non in un altro modo?”…. . Questo non significa che già dai primi colloqui non si possa riscontrare un sollievo significativo, ma per potere incidere davvero sulla nostra esistenza, qualsiasi essa sia e qualsiasi sia la situazione che dobbiamo affrontare è necessario che si possa lavorare insieme sulla comprensione globale di noi stessi. D’altra parte la realtà non cambierà, il nostro capo non cambierà lavoro solo per semplificarci la vita…questo è un compito che spetta a noi.

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“Molte volte avevo fantasticato sul mio futuro, avevo sognato ruoli che mi potevano essere destinati, poeta o profeta o pittore o qualcosa di simile. Niente di tutto ciò. Né io ero qui per fare il poeta, per predicare o dipingere, non ero qui per questo. Tutto ciò è secondario. La vera vocazione di ognuno è una sola, quella di conoscere se stessi. Uno può finire poeta o pazzo, profeta o delinquente, non è affar suo, e in fin dei conti è indifferente. Il problema è realizzare il suo proprio destino, non un destino qualunque, e viverlo tutto fino in fondo dentro di sé” Demian – H. Hesse

 

A. Ligabue
Antonio Ligabue
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Una rosa sul banco

UNA ROSA SUL BANCO
Il sostegno al lutto per eventi traumatici e suicidio nella rete con la scuola

Seminario

Sabato 17 febbraio 2018 Distretto del Cinema di Parma Via Mafalda di Savoia, 17a Parma
Partecipazione gratuita con richiesta di prenotazione. Riferimento per le iscrizioni: sgasparelli@ausl.pr.it

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Speriamo che con lei si apra…

  • Con noi non parla. Speriamo lo faccia con lei!

Quando i genitori si rivolgono a un terapeuta per un figlio adolescente non è raro che una delle loro aspettative sia proprio questa: “Con noi non parla, speriamo che con lei riesca ad aprirsi!”. Non è una questione semplice da circoscrivere, e ciò che di seguito si propone altro non è che un tentativo…

Di certo è un’aspettativa ragionevole! D’altra parte quando si decide di rivolgersi a uno specialista per il proprio figlio è probabile che ci sia già una certa percezione che il problema riguardi anche degli aspetti comunicativi/relazionali tra genitori e ragazzo.

E’ abbastanza comune che al primo colloquio i genitori portino tutta una serie di difficoltà legate alla comprensione del disagio del figlio. Ci si rende conto che c’è qualcosa che non va, una sofferenza più o meno esplicita del ragazzo che spesso si manifesta con agiti di varia natura, ma a cui è difficile attribuire un senso. Non di rado l’intera famiglia si trova alle prese con un doloroso rompicapo; da una parte i genitori: “sta male ma non riusciamo a capire cosa abbia, con noi non parla!”, dall’altro i figli: “i miei genitori non mi ascoltano, non mi capiscono, non possono capire”.

Queste questioni non rappresentano una particolare novità: da parecchio sappiamo (ed è di dominio comune) che gli adolescenti, per tutta una serie di ragioni fisiologiche ma anche psicologiche e sociali, si trovano a dover fare i conti con la separazione dalle loro figure di riferimento primarie. Solo passando attraverso questo processo di “allontanamento” potranno iniziare a rimodellare la propria identità in vista dell’ingresso nel mondo degli adulti.

Gli adolescenti hanno i loro buoni motivi per sottrarre aspetti della propria vita alla supervisione dei genitori, i quali al contrario, si dimostrano spesso nostalgici di quel genere di condivisione totalizzante che aveva caratterizzato l’infanzia.

Siccome non è facile fare i genitori così come non lo è fare i figli, trovare un compromesso risulta abbastanza di frequente una sfida a chi tira di più la corda, piuttosto che una cocostruzione di nuovi equilibri funzionali alla comprensione e all’accettazione dell’altro per com’è e per ciò che sta divenendo.

Questo non significa che il conflitto (manifesto, agito, pensato, attuato ecc ecc) non possa fare parte di una buona relazione, anzi! il conflitto è parte costitutiva e imprescindibile della buona vita sociale, anche familiare, benchè purtroppo siamo spesso indotti a credere che il conflitto sia da rifuggire. Ma il conflitto, il buon conflitto, deve poter essere utilizzato come uno strumento di comprensione di sè e dell’altro e non confinato a una dimensione in cui l’unico scopo è mantenere se stesso come sola possibilità di stare con l’altro.

Ma come è possibile uscire dall’impasse se genitori e figli sembrano parlare lingue diverse, siano esse le urla, il silenzio, la menzogna, il raggiro, il ricatto, la fuga…?

Alla luce di ciò è chiaro come una delle aspettative più complesse con cui ci si rivolge al terapeuta è che egli possa fungere da una sorta di traduttore bidirezionale che aiuti gli uni a comprendere gli altri. Ed è proprio da questo che nasce il primo fraintendimento esplicitato più o meno così “a noi non dice cosa lo fa stare male, se lei riesce a farlo parlare allora potremo capire cos’ha”.

Non è mai semplice frustrare le aspettative di chi ci chiede aiuto, a maggior ragione se è una persona che soffre, come può essere un genitore davanti al dolore senza nome del figlio. Ma la verità è che non ho il potere di far parlare qualcuno se non vuole. Certo, questo forse renderebbe più “semplice” il lavoro, ma sarebbe davvero la cosa migliore? Sarebbe onestamente utile che un ragazzo che fuori dallo studio non proferisse una singola parola con gli adulti (e talvolta con i coetanei) fosse con me un libro aperto? E ancora: quante volte si fanno delle cose senza conoscerne davvero il motivo? come spiegare a qualcuno come e perchè si sta in un certo modo se non è chiaro nemmeno a noi stessi?

Se fosse possibile capire l’altro, la sua sofferenza, la sua necessità di essere compreso, il suo modo di stare al mondo e di agire su di esso, semplicemente chiedendoglielo (ammesso di ottenere una risposta), significherebbe accettare un essere umano perfettamente onnisciente rispetto a se stesso e quindi all’altro…e allora forse non esisterebbe nemmeno il dolore.

Le riflessioni potrebbero essere tante e tante altre se ne potrebbero fare per ogni specifico caso. Due però mi sembrano fondamentali:

  • Chi entra nello studio di un analista deve poter esercitare un diritto fondamentale e importantissimo: porsi per ciò che egli è. Questo sta a significare che il terapeuta non è lì per essere compiaciuto, per giudicare o per agire in modo coercitivo e indiscriminato sull’altro, non è lì per pontificare su come si dovrebbe essere e non si è, per proporre soluzioni o consolazioni. (Non è questo il tipo di lavoro che mi sento di poter o volere offrire). Queste sono tutte cose di cui è bene informare chi si rivolge a un terapeuta, sia esso l’inviante (come nel caso dei genitori) o il ragazzo.
  • Quanto detto implica la legittima possibilità da parte del ragazzo di scegliere di non dire di sè; al ragazzo non viene chiesto di “fare delle delle cose” ma di “di essere quello che è”. Al terapeuta resta il compito di accogliere tutto questo e accettare che la relazione possa costituirsi a partire da altro, cioè la situazione stessa dello stare insieme.

In questo senso il lavoro terapeutico deve essere inteso come una comprensione dell’altro a un livello profondo, che può prescindere addirittura da ciò che si dice e ciò che si esplicita.

Che il ragazzo “si apra” o “non si apra”, non fa una sostanziale differenza ai fini terapeutici, perchè quello che davvero conta è che egli si renda disponibile a stare in relazione con l’altro. Qualsiasi forma la relazione assuma.