C’è un aspetto nel nostro mestiere che si da per scontato, un’ovvietà che si fa un po’ meno ovvia man mano che passa il tempo e si susseguono i volti e le storie: l’attesa. Quante volte avrei voluto uscire dalla mia stanza, prendere per mano qualcuno e accompagnarlo di persona là fuori nel mondo per proteggerlo, difenderlo, aiutarlo, supportarlo, consigliarlo, sussurragli all’orecchio “sta attento”. Guardare con i miei occhi, sentire con le mie orecchie. Ripristinare meccanicamente un equilibrio. Fantasie naturalmente. La mia poltrona, la mia stanza, il mio ruolo mi legano a loro. Stretta. È giusto, ci sto. Ma che posizione meravigliosamente ingrata ci tocca. Lì seduti in perenne attesa. Senza nemmeno poter sbirciare dal buco della serratura. Condannati a un costante sforzo immaginativo di cose, luoghi, persone, eventi. Ologrammi, precipitati di emozioni. Dimensioni parallele in cui accade solo ciò che si vuole e ciò che è necessario. Ma lasciar andare, accettare che la vita là fuori se la giochi il legittimo titolare, aver fiducia, tollerare le pause, le assenze, i distacchi infondo è tutto ciò che davvero importa. E a noi non resta che dire: fa buon viaggio, io sono qui.
Che mestiere quello del terapeuta: idealizzato, svalutato, inseguito, abbandonato, guardato con diffidenza, con speranza. Sempre insieme all’altro e contemporaneamente sempre solo. Avrò fatto bene? Avrò fatto male? Dovevo dirlo oppure no? Dominarsi, dominarsi, lasciarsi andare e poi tornare a dominarsi. Riproporsi uguali a se stessi eppure diversi, giorno dopo giorno. Sostenere una conversazione, tenerla accesa quando rischia di spegnersi, cambiare livello, leggere tra le righe tra le emozioni e le parole, stare col dolore, addolorarsi ma rimare solidi, stoici. Emozionarsi ma non troppo, perturbarsi ma con coerenza, perturbare ma con rispetto, empatia, dimostrarsi professionali ma con misura. Ritararsi ogni volta, ad ogni essere umano. Asciugare le lacrime e rispondere ai sorrisi. Uno shot di centrifugato di tutte le emozioni del mondo, uno all’ora. Mente e cuore, cuore e mente, un po’ più di qua, un po’ più di là. Mantenere un vertiginoso equilibrio. È dura la vita di un terapeuta, ma che avventura meravigliosa.
Voglio dire una cosa che sarà impopolarissima ma liberatoria: sapete cosa NON faccio? NON aiuto le persone a stare bene. Le aiuto a comprendere e a comprendersi, le aiuto ad attraversare e significare il dolore, tengo loro la mano quando soffrono, le accompagno e le sostengo quando giunge l’inevitabile momento di unire i puntini della loro vita. Auguro a tutti loro di trovare il senso delle loro esistenze. Mi occupo della loro salute psicologica. Ma non prometto né propongo “percorsi per ritrovare il benessere” (o il ben-essere come va di moda ora). Spero che possa essere un effetto collaterale della terapia, ci mancherebbe, ma non è un obiettivo nelle mie possibilità. D’altra parte non lavoro in una spa e men che meno mi sento di sostenere una visione edonistica della vita. Che per altro (la vita) è un’avventura tanto bella quanto terribile. Ed è durissima, difficilissima, dolorosissima. Quindi no, non posso promettere a nessuno che tramite me la sua vita sarà fantastica, non soffrirà più e l’ansia e lo stress (quanto abusiamo di queste parole?) pufff spariranno, né che risolveremo tutti i problemi (che poi problema è sinonimo di vita solitamente). A volte sarà già un ottimo risultato se riusciremo a tenere naso e bocca fuori dal fango quel tanto che basterà per continuare a respirare. Tutti vogliono star bene ma è raro che qualcuno abbia desiderio di comprendere, e invece, porco cane, è proprio quello che fa la differenza sulla nostra vita. Ecco, l’ho detto.
Occuparsi di adolescenti significa spesso occuparsi anche dei loro genitori. Così nel corso del tempo ho avuto l’occasione di conoscere tante coppie genitoriali. Tutte diversissime tra loro, più o meno affiatate, più o meno preoccupate, più o meno comprensive, ma tutte decisamente interessate a sapere qualcosa in più sul proprio figlio. Sarà perché ricevo in uno studio privato, sarà che indirizzare un figlio a una psicoterapia significa avere a monte un pensiero di un certo tipo e gli strumenti per poterlo compiere, ma non ho mai ho avuto a che fare con “cattivi genitori” (che esistono. No, mettere al mondo un bambino non da automaticamente la patente di santità), anzi, tutti quelli che ho avuto il piacere di conoscere amano sopra ogni cosa i propri figli e sarebbero disposti a grandi sacrifici per aiutarli e sostenerli nel loro percorso di vita.
Mi sono chiesta quindi che cosa fa di una donna o un uomo un genitore efficace.
Prima risposta: il risultato. Ho conosciuto ragazzi splendidi, educati, generosi, brillanti, fiduciosi nelle proprie possibilità, determinati, magari un po’ in difficoltà in un certo momento della vita, ma con prognosi assolutamente favorevoli (e qui spesso mi viene da pensare, e altrettanto spesso esplicitare “beh mamma e papà hanno fatto davvero un buon lavoro”).
Seconda risposta: come sono fatti i genitori, come erano prima di esserlo, le loro inclinazioni personali, le loro attitudini, il modo di leggere il mondo, se stessi e gli altri. Ci sono due questioni sulle quali ho riflettuto molto: la possibilità di intendere se stessi come esseri imperfetti e fallibili, il fatto di poter fare errori insomma, e la capacità di potersi perdonare. Il che non significa cieca indulgenza rispetto a sé, ma il potersi soffermare su aspetti critici del proprio procedere, metterli in discussione, ricalibrare il tiro, ma anche accettare l’errore e l’imperfezione come fatti intrinseci della vita. Si. Anche quella di un genitore. È una questione di responsabilità, di assunzione di un certo rischio, che inevitabilmente comporta la crescita e l’educazione di un altro essere umano. I genitori perfetti non servono a nessuno, non è utile proporre un modello inarrivabile ai nostri figli, che poi…dato che la perfezione non è di questo mondo essere perfetti non significa altro che una certa rigidità nell’osservare se stessi e i propri errori in una riproposizione ricorsiva e stagnate del proprio ego. Quindi sbagliate genitori, poi fermatevi, riflettete, correggetevi, migliorate, perdonatevi, e sarà la migliore lezione per i vostri figli.
Edgard Allan Poe, scrittore: orfano di madre, abbandonato dal padre alla nascita
Angelina Jolie, attrice: dopo la separazione dei genitori cresce solo con la madre
Ingrid Bergman, attrice: orfana di madre a due anni, cresce col padre
Eleanor Roosevelt, attivista e firstlady: orfana di genitori viene cresciuta dalla nonna
John Lennon, attivista e musicista: abbandonato dal padre cresce con la madre. In seguito viene adottato dalla zia.
Nelson Mandela, ex presidente del Sud Africa: dopo la morte di suo padre, a nove anni viene adottato dal capo reggente dell’etnìa Thembu.
Gerald Ford, ex presidente USA. Orfano di padre viene cresciuto dai nonni.
Jay Z, rapper: abbandonato dal padre, cresce con la madre
Leonardo del Vecchio, imprenditore Luxottica: orfano di padre trascorre l’infanzia in orfanotrofio.
Justin Bieber, cantante: Figlio di ragazza madre viene cresciuto con l’aiuto della nonna e del di lei compagno. …
“Possiamo ancora dire che i bambini hanno bisogno di una mamma e un papà?”, è una delle domande – sarcastiche – che più rimbalza nelle bacheche social ultimamente, presumibile effetto collaterale di un certo fraintendimento interpretativo del ddl Zan (ma questa è un’altra storia). Allora mi sono chiesta: “i bambini hanno davvero bisogno di una mamma e di un papà?”. Domanda un po’ crudele perchè rispondere no significa anche solo per fantasia, privare un bambino di almeno uno dei sui genitori (biologici) mentre rispondere si sarebbe dichiarare una falsità.
Si poteva però provare a mettere giù la questione in altri termini, tipo: “sarebbe bellissimo che tutti i bambini del mondo potessero crescere insieme ai proprio genitori biologici il più a lungo possibile (perchè se si parla di bisogno magari non si esaurisce mai…)”. Poi ho pensato però che non bastava e ho aggiunto “sperando che i genitori siano delle persone sufficientemente a modo, capaci di provare sincero affetto e supportare evolutivamente il figlio (minimo sindacale ridotto all’osso)” perché se i genitori sono delinquenti o completamente inetti le cose si complicano. Ma non bastava nemmeno così perché anche se tutte le condizioni si verificassero, dato che il bambino ha bisogno di una madre e di un padre, è necessario mettere tutti al riparo da varie ed eventuali come malattie, incidenti, trasferimenti per necessità o lavoro, separazioni, morte, perché se uno dei due genitori venisse a mancare o dovesse per qualche motivo assentarsi… E poi…onestamente…in tutta la storia del mondo quando mai i bambini sono stati cresciuti dai genitori? Forse da personale di servizio, dai nonni, da piccole e grandi comunità, da famiglie allargate, dai fratelli maggiori, da asili, scuole e collegi, spesso sono cresciuti soli. Quando abbiamo smesso di pensare che crescere un bambino fosse un progetto collettivo? E quando invece abbiamo iniziato a credere che l’importante, tra tutto, fosse il “numero di figure di accudimento primarie” e il loro sesso biologico? Non un buon contesto sociale, non la qualità delle relazioni, non un buon sistema educativo e ricreativo, non un welfare che dia le stesse opportunità a tutti al di là della propria estrazione socio economica. NO. Per qualcuno il punto è il sesso biologico delle due persone che ti cresceranno.
Conclusioni: “i bambini hanno bisogno di una madre e di un padre?” NO. Anche se la domanda (o l’affermazione) messa giù così purtroppo è idiota dato che si propone di tracciare un confine tra ciò che si suppone vada bene “crescere con una madre e un padre” vs “tutti gli altri casi” per ogni abitante del pianeta siccome, e questo è vero, ognuno di noi è figlio di un uomo e una donna.
L’ISTAT stima che il 21% delle donne tra i 16 e il 70 anni, in Italia, abbia subito almeno una volta una qualche forma di abuso sessuale. Parliamo di 4 milioni e mezzo di donne. 4.000.000 e 500.000 donne. La violenza sessuale è un tema che riguarda tutti, che colpisce tutti, e del quale mi sono sempre astenuta dal parlare perché è un tema difficile, complesso e controverso, anche se mi riguarda in prima persona, come donna, madre di una bambina e operatrice della salute mentale pur non faccendo parte di quei 4 milioni e mezzo. Oggi però una cosa la voglio dire. E voglio dire BASTA! Basta a tutto il carosello che si crea intorno a queste storie e alla fame di dettagli prurigginosi, basta puntare il dito, basta a “lo voleva poi se n’è pentita e ora chiede soldi”, basta alle difese basate sulla consensualità, basta a “era una facile”, basta al branco che si autoprotegge e autoalimenta, basta ai padri deliranti e urlatori, basta alle madri che raccolgono confidenze di figlie (a volte solo bambine) a cui non credono, basta a “ci volevamo solo divertire”, basta al tacere tutto per timore di uno scandalo in famiglia. Basta a tutto per favore. Ci sono donne che mentono? Si certo. Ci sono donne che fanno orge e poi se ne pentono e denunciano tutti? Non lo so ma immagino possa succedere. E quindi? Ora, tralasciamo pure il fatto che questi eventi abbiano un’incidenza sul totale pressoché irrilevante, ma è a questo serve la giustizia, a verificare quanto una persona sia credibile e ad accertarne il danno subito ed eventualmente i colpevoli. Cosa c’entrano tutti gli altri? A far passare sempre la donna come la manipolatrice o come quella che cambia idea in un diabolica premeditazione NO, non ci sto più. E mi disgusta, mi indigna, mi nausea essere costretta a sentire sempre il solito ritornello “era consensuale”. No. Se sei ubriaca e in 5 fanno sesso con te non è consensuale, se avete concordato il pagamento e poi ti massacra di botte non te la sei cercata, se non hai urlato per fermare la violenza, se eri troppo piccola per capire e chi avrebbe dovuto proteggerti non l’ha fatto, se eri “troppo provocante”, se vivi liberamente la tua sessualità, no, non è colpa tua. E adesso basta per favore. È il momento di dire BASTA.
Quante volte in questi anni mi sono trovata a fare una cosa che non mi sarei mai aspettata di fare (non così tante volte almeno): aiutare i figli a richiamare i genitori all’ordine. All’ordine di ruoli, di funzioni, di adultità e responsabilità. Quante volte ho visto splendidi, meravigliosi giovani donne e uomini, nel pieno della loro energia propulsiva e vitale piegarsi alle richieste affettive e spesso moralmente, anche se mi auguro “inconsciamente”, ricattatorie dei loro stessi genitori. “Cresci abbastanza per occuparti di me, per divenire il mio di genitore: amami, consolami, sostienimi, comprendimi, aiutami, sii mediatore nel mio rapporto di coppia, confidente dei miei segreti più intimi ma resta anche piccolo, tenero abbastanza per ricevere ancora amore fisico, per farmi le coccole come quando eri bambino, per dormire con me, non mi abbandonare, resta per sempre con me, se non tu che sei figlio chi altri?” Quanto è sconcertante, disorientante, doloroso, guardare questi ragazzi barcollare, altalenare tra una posizione e l’altra, sentirsi in colpa per essere ormai troppo grandi per certe cose e vergognarsi per non riuscire mai realmente a crescere. Quanta paura c’è in questi giovani nel solo pensiero di ferire i propri genitori, anzi, di poterli distruggere con un solo movimento evolutivo di troppo. Genitori immaginati e pensati come creature fragilissime, incapaci di incassare i colpi inevitabili inferti dall’osservare impotenti il proprio figlio diventare uomo o donna. Ed è allora che i ragazzi devono essere aiutati a riappropriarsi del loro status di figli, che devono essere sostenuti nella loro possibilità di chiedere, o meglio, di pretendere di essere ciò che sono, di puntare i piedi di fronte a richieste improprie di accudimento da parte di chi, per natura e per legge dovrebbe invece accudire. Certo non è semplice, perchè la sensazione è che in gioco ci sia la valuta più preziosa, l’amore dei genitori. E allora se “il padre non può più essere ucciso” come avrebbe detto Freud diventa almeno necessario tentare di rimettere a fuoco l’amore per se stessi, per la propria di vita e sottolineare come crescere e divenire non può mai, in nessun caso, essere un movimento distruttivo per l’amore.
E’ già da qualche tempo che sento il mio luogo di lavoro un po’ come una casa e le persone che lo visitano un po’ come una famiglia. A volte è necessario congedarsi per un istante, giusto il tempo di prendere fiato, per poi rimmergersi in questa splendida professione con nuova energia ma immutato entusiasmo (forma sottile sottile per dire che da domani fino al 7 aprile compreso sarò in ferie olè olè). Voglio lasciarvi però con una bella riflessione di Anna Ferruta a proposito del setting che è per l’appunto la stanza d’analisi (più altra roba): “[dentro al setting il paziente] Potrà avvalersi di una mente a sua disposizione per poter mettere in scena amore odio paura amicizia creatività felicità nostalgia dolore, un vero e proprio teatro nel quale finalmente ha spazio e tempo per rappresentare i molti personaggi che potenzialmente sente di potere diventare senza essere costretto a una scelta precoce e senza perdere la coesione del sé.” Ed io ho fatto tutto questo con voi, per voi, e grazie a voi <3. Buone feste di Pasqua a tutti!
4 anni fa oggi. Discussione della tesi di specializzazione “La solitudine condivisa nella relazione psicoanalitica” (mai avrei pensato che il titolo potesse essere così profetico 😔). Uno dei giorni più importanti della mia vita.
Ogni tanto ci si dimentica che gli psicoterapeuti sono anch’essi degli esseri umani. Quindi se ti stai chiedendo se anche per loro la vita durante la pandemia sia complessa e a tratti dolorosa, la risposta è SÌ. Siate gentili col vostro terapeuta, ve ne sarà grato e vi ricompenserà 😁